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17 Nov 2014

Filosofie di vita e vita della filosofia

Per Deleuze il rischio filosofico maggiore è la stasi del pensiero, cioè l’immobilità dei concetti e l’ortodossia del metodo.

Guattari et Deleuze

Che differenza c’è tra una filosofia di vita e la vita della filosofia? La filosofia di vita è il giusto metodo: la buona regola da osservare per tutta la vita. La vita della filosofia è invece qualcosa di meno certo, più imprevedibile: si ha quando il metodo vacilla e le rette vie scompaiono. La filosofia è all’apice della sua vitalità negli istanti d’insicurezza che segnano il passaggio da un metodo filosofico all’altro, oppure quando concepisce un metodo che sia esso stesso insicuro, perché in costante divenire.

Per Deleuze, il rischio filosofico maggiore è la stasi del pensiero cioè l’immobilità dei concetti, l’ortodossia del metodo, l’unicità della regola. Il suo problema principale è, invece, la vitalità della filosofia. Come dare al pensiero la potenza della vita? Questa domanda attraversa tutta l’opera deleuziana, trasformandola in una battaglia intellettuale per la vita della filosofia contro le filosofie di vita.

Di solito, il filosofo si comporta come una tangente. Tocca la vita in un punto, ne fissa le criticità, e poi si arrampica su una linea retta che lo conduce al suo sistema di pensiero. Per esempio, un’ingiustizia porta a concepire un codice di leggi per evitare le ingiustizie, il movimento di un pianeta ispira una meccanica celeste per descrivere e prevedere il comportamento di tutti gli astri, il sentimento di un’epoca suggerisce una particolare visione da applicare in senso assoluto al mondo… Il concetto cardine di questo genere di filosofi è l’essere: ciò che permane al di là del divenire, ciò che è universale ed eterno. Il metodo è il loro algoritmo rigoroso, il meccanismo attraverso cui dirigono e generano il loro pensiero.

Deleuze non ama questo modo di far filosofia, non ama questa figura del filosofo. Non ama le rette tangenti e più in generale le strutture trascendenti, cioè quei sistemi che partono dalla vita (perché è da lì che necessariamente s’incomincia anche quando si filosofa), solo per poi prenderne le distanze: per osservarla, dubitarne, criticarla, giudicarla, fondarla, orientarla, organizzarla, interpretarla, comunicarla o rappresentarla. Deleuze preferisce i rizomi e i piani, cioè strutture multidirezionali e immanenti, che aspirano alla molteplicità della vita, finendo immancabilmente per confondersi con essa.

Invece di prendere spunto dalla vita con l’obiettivo di costruire un metodo da applicare alla vita stessa, la filosofia di Deleuze ambisce a divenire un sistema vitale. In questo senso, si può parlare di vitalismo deleuziano. Del resto è lo stesso Deleuze a suggerirlo: «Tutto quel che ho scritto era vitalismo, o almeno spero che lo sia, e costituiva una teoria dei segni e dell’evento».1 L’evento: l’accadere del divenire: è questo il chiodo fisso della filosofia di Deleuze.2

I concetti deleuziani sono elementi di un sistema filosofico vivo, diveniente. Per questo non resistono più di due pagine senza complicarsi, sfumarsi o congiungersi ad altri concetti. Si sottolinea spesso come Deleuze, soprattutto quando scrive con Félix Guattari, si lasci alle spalle lo stile rigoroso dei primi saggi su Hume, Kant, Nietzsche, Proust o Bergson. Bisognerebbe essere meno drastici e fare attenzione anche al fenomeno inverso, sebbene sia meno palese. Nei saggi giovanili, lineari e accademici nel complesso, traspare già quel gusto per la molteplicità, la variazione e la congiunzione che diverrà tipico nei testi della maturità.

Le definizioni che Deleuze dà dei concetti non sono mai definitive. Di norma ne dà alcune all’interno della stessa opera e diverse nel corso della vita: le riprende, le varia, le rinnova. Deleuze immerge il pensiero nella vita, adottandone lo stile: se la vita è creazione, divenire e concatenamento, allora un pensiero vivo crea, diviene e congiunge.3 C’è un divenire romanziere, psichiatra, pittore, regista, matematico, fisico, linguista, medico, astronomo e biologo nell’opera di Deleuze. C’è tutto questo, tranne forse un divenire propriamente filosofo, cioè un modo di filosofare che sia veramente, correttamente, tradizionalmente filosofico, nel senso di compatibile con l’idea che nel corso della storia la filosofia si è data di se stessa e del suo esercizio. Tale incompatibilità, che disorienta il lettore, risiede nell’utilizzo particolare che Deleuze fa del metodo. O meglio: nel suo particolare non-utilizzo.

Deleuze detesta il metodo, lo considera una «brutta parola».4 Come storico della filosofia è bravissimo a individuare il metodo utilizzato da altri pensatori: l’intuizione in Bergson, l’espressione in Spinoza, la genealogia in Nietzsche. Tuttavia, come filosofo è restio a proporne uno.

L’idea deleuziana che più si avvicina a quella di metodo è la «drammatizzazione». Nel 1967, prima di ultimare Differenza e ripetizione, egli tiene una conferenza presso la società francese di filosofia intitolata «il metodo della drammatizzazione». L’intervento, lungo e articolato, stupisce tutti. Per la ricchezza e l’originalità, ma soprattutto perché Deleuze non ritiene importante definire cosa intenda per «metodo della drammatizzazione». Forse intimiditi dalla fama del personaggio, i presenti non gli pongono vere domande: tutti obiettano, interpretano, precisano, ma nessuno osa chiedere apertamente cosa sia, in fin dei conti, la drammatizzazione.

Tutti, tranne uno. Maurice Gandillac, il direttore di tesi di Deleuze,5 che chiede basito: «Dietro al suo vocabolario suggestivo e poetico, intravedo, come sempre, un pensiero solido e profondo, ma confesso mi piacerebbe che facesse alcune precisazioni complementari sul tema della drammatizzazione, che compare nel titolo e che lei non ha creduto necessario definire». Questa domanda è l’emblema di un fraintendimento. Per Deleuze, definire qualcosa significa farlo entrare in gioco, usarlo, buttarlo nel mezzo, metterlo in azione (drammatizzarlo), mentre per Gandillac, medievalista, filologo e traduttore, definire significa innanzitutto (secondo l’etimologia della parola) delimitare, confinare e, più profondamente, situarsi rispetto a una tradizione: spiegare perché s’introduce un nuovo termine o se ne riutilizza uno già noto, specificare poi come lo si interpreta o in che modo si riprende o ci si discosta dall’utilizzo che ne è stato già fatto.

Tra i due, il vero filosofo è Gandillac. La sua domanda, riassumibile in “Che cos’è la drammatizzazione?”, è la più legittima tra quelle filosofiche. Innanzitutto perché domanda l’essenza. In secondo luogo, perché invita a circoscrivere un campo d’azione, cioè ad attribuire a un determinato termine un determinato significato, in determinante circostanze e sotto determinate condizioni.6

A ben guardare, la domanda di Gandillac è molto meno neutra o ingenua di quel che può sembrare di primo acchito. Essa presuppone già un certo metodo filosofico e una precisa idea di filosofia. Prima ancora di domandare, le parole di Gandillac accettano, tramandano, insegnano e soprattutto esigono che un filosofo, per dirsi tale, si comporti conformemente a quella concezione di filosofia che fa della definizione e dell’etimologia i suoi strumenti d’elezione e che fa della storia del pensiero la sua formazione.

Più che una domanda, quella di Gandillac è un’interrogazione, o forse un inconsapevole interrogatorio, perché trova le sue ragioni più profonde nella convinzione di aver colto il proprio interlocutore in errore rispetto a un metodo tacitamente e preliminarmente accettato come giusto. Poco importa che l’intervento di Deleuze si apra proprio denunciando l’ossessione della filosofia per l’essenza e la corrispettiva domanda «Che cos’è?». Per Gandillac, quella è, e rimane, l’unica domanda propriamente filosofica. Sottrarsi al battesimo della definizione significa non fare filosofia, o al massimo filosofare in modo insufficiente, magari «suggestivo» e «poetico», ma poco rigoroso.

Molti anni dopo, le parti s’invertono: questa volta sarà Deleuze a non riconoscere Gandillac come filosofo. Rendendogli omaggio in un breve scritto, Deleuze ricorderà il suo direttore di tesi come un «profondo filologo».7 Il filologo è il campione dell’etimologia, disciplina che Deleuze considera l’«atletismo propriamente filosofico»:8 un strumento così largamente impiegato dalla tradizione filosofica, da essere considerato oggi come filosofico per natura, ma che in realtà lo è solo perché legittimato da un certo modo, ormai consolidato, d’intendere e praticare la filosofia.

In queste idee risiede la cifra del pensiero deleuziano: una filosofia anomala, eversiva, che rivendica il diritto di snaturare la filosofia senza chiamarsene fuori e senza accettare di esserne esclusa. Una filosofia a sistema aperto, che fa del divenire il suo stile e della sopravvivenza il suo metodo. Un pensiero che si preoccupa di mantenere la sola peculiarità che importa alla vita: restare vivi.

Come confrontarsi con una simile eredità? Inutile pretendere di spiegarla dall’inizio alla fine, perché si troverebbero solo delle ovvietà: i concetti deleuziani divengono in continuazione, si moltiplicano, si sovrappongono e influenzano vicendevolmente. Ci si ritroverebbe a parlare di cesure, ripensamenti o rielaborazioni, di fasi o periodi: il primo, il secondo o il terzo Deleuze… si finirebbe per applicare quel preciso modo di far filosofia che Deleuze ha sempre fuggito con consapevolezza e ostinazione.9

Perché mai esigere l’organicità dell’albero dalla disorganicità dell’erba?10 Si avvertirebbe solo una gran frustrazione, arrivando a dubitare dell’utilità di una filosofia in cui, invece di trovare la retta via per orientarsi, si finisce sempre per perdersi. Come studiare, insegnare o divulgare un pensiero estremamente sistematico (allo stesso modo di un labirinto o di un rizoma), ma rispetto cui è difficilissimo trovare consenso interpretativo tanto nei dettagli quanto nelle linee più generali? Cosa apprendere da un filosofo che ci pone gli stessi problemi della vita (il divenire, la molteplicità, l’ecceità) che credevamo di aver risolto proprio grazie alla filosofia?

Secondo noi, l’insegnamento cruciale del pensiero deleuziano è l’esortazione a rimettere in discussione la legittimità della filosofia, prima ancora che l’esattezza delle tesi filosofiche. Interrogarsi sui metodi filosofici più o meno accettati e consolidati, evitare una postura neutra, inconsapevole e trasparente verso i modi in cui si filosofa e secondo cui si concepisce o insegna la filosofia. Rimettersi in discussione non è mai facile, anzi, è sempre doloroso, ma è decisamente un segno di vita. In questo senso, Che cos’è la filosofia? non è un titolo un po’ pretenzioso per un libro scritto da vecchi professori, ma un manifesto filosofico che tematizza in modo molto polemico il problema della vita della filosofia.

Invece di disquisire sull’eventualità di una morte del pensiero – magari per esorcizzarla, Deleuze e Guattari scelgono di rimettere in questione la sua presunta vita, la sua storia, le sue origini come la sua stessa natura.

Per abbandonare le filosofie di vita, in favore di una vita della filosofia bisogna innanzitutto ribaltare l’atteggiamento del filosofo: stare, per una volta, dalla parte del mondo e cercare sul versante del pensiero. Interrogarsi sulla natura di quest’ultimo, sui suoi presupposti e metodi perché, tra tutte le azioni umane, pensare è quella meno pura, meno libera e trasparente, nonostante esista storicamente una certa immagine del pensiero, chiamata filosofia, che ci ha spesso convinto del contrario.


1 G. Deleuze, Pourparler, cit. p. 196 (fr.).

2 Cfr. Ibidem, p. 38 : «La filosofia si è sempre occupata di concetti, fare filosofia è il tentativo di inventare o creare concetti. Tuttavia i concetti hanno diversi aspetti possibili. Ce ne siamo serviti a lungo per determinare ciò che una cosa è (essenza). Noi al contrario ci interessiamo alle circostanze di una cosa: in quale caso, dove e quando, come, ecc. ? Per noi il concetto deve dire l’evento, e non più l’essenza».

3 Si pensi per esempio all’elogio deleuziano della congiunzione “e”, contrapposta alla “è” del verbo essere.

4 G. Deleuze, C. Parnet, Dialogues, cit. p. 25.

5 Maurice Gandillac è dirige Deleuze durante la stesura della tesi principale di dottorato Differenza e ripetizione.

6 Cfr. la stessa domanda continua: «Ha usato, infatti, dei termini molto vaghi, che sono in qualche misura parole tutto fare della filosofia e hanno valore solo nel loro contesto specifico».

7 G. Deleuze, Le superfici d’immanenza, in Due regimi di folli e altri scritti, Einaudi, 2010, p. 214.

8 Cfr. Che cos’è la filosofia?, cit. p. XIV, corsivo mio.

9 In una conversazione pubblicata su Libération il 22 settembre 1988 e raccolta in Pourparler, op. cit., p. 180, con il titolo “Sulla filosofia”, Robert Maggiori domanda a Deleuze: «La sua opera va considerata come un tutto, come un’unità? O al contrario ci vede delle rotture, delle trasformazioni?». Deleuze inizia la risposta lasciando intendere una possibile periodizzazione del suo pensiero: «Tre periodi andrebbero bene». Continuando, egli descrive sommariamente i tre possibili periodi: la fase giovanile concertata sulla storia della filosofia, l’esperienza con Guattari e la svolta estetica con gli studi sul cinema e la pittura. Alla fine della risposta, lo stesso Deleuze ritratta la possibilità concessa in apertura, secondo cui una periodizzazione del suo pensiero sia possibile: «Alla fine, tutti questi periodi si prolungano e si mescolano, me ne rendo conto meglio ora, in questo libro su Leibniz o sulla piega. Preferirei dire cosa vorrei fare in futuro». Deleuze sembra quasi stizzito per essersi fatto irretire da una domanda sciocca. Perché sciocca? Perché in ogni pensiero ci sono tanti periodi quanti ne vogliamo trovare. Il «periodo», la «cesura» o la «trasformazione» non sono elementi propri alla filosofia di un pensatore, ma sono i punti di riferimento propri al metodo, nella fattispecie storicista, con cui si analizza il pensiero di un filosofo. Ancora una volta emerge il grande supposto della filosofia occidentale, il suo pensiero prima di pensare: ci si orienta nella filosofia secondo un metodo storicista che fa della cronologia il solo criterio rilevante. Per questo, si trovano periodi dappertutto. Basterebbe rimettere in discussione questo metodo, per veder scomparire tante periodizzazioni che sembrano ovvie. Per esempio, secondo un “metodo concettuale”, Deleuze dimostra un’incredibile continuità di pensiero. Inizia la sua carriera con una tesi sul pensiero di Spinoza incentrata sul concetto d’immanenza, reimpiega innumerevoli volte tale concetto nel corso della sua opera, e infine consacra sempre all’immanenza il suo ultimo scritto. Ecco allora che «i periodi si prolungano e  si mescolano», finendo per essere solo una delle tante chiavi di lettura possibili.

10 Riprendiamo qui la terminologia di Millepiani.